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Intercettazioni

Domenico Mele Investigatore Milano
lunedì, 01 Luglio 2019 / Pubblicato il Riferimenti normativi

Intercettazioni

Commette reato il genitore o l’investigatore privato che registra le telefonate dei figli minori. La sentenza della Cassazione Penale nr. 41192/2014 ha affermato, incontrovertibilmente, che il genitore che registra le comunicazioni tra il figlio e l’altro genitore commette il reato di cui all’art. 617 del Codice Penale. Tale reato prevede appunto che “chiunque, fuori dei casi consentiti dalla legge, installa apparati, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche tra altre persone è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.

La vicenda riguardava due genitori separati, uno dei quali aveva il timore che l’altro, con le sue telefonate, poteva influenzare negativamente il minore. La Cassazione ha affermato che il soggetto minore è sempre e comunque considerato terzo rispetto al genitore che ha predisposto l’intercettazione. Pertanto il minore è titolare di pieni diritti che, nel caso di specie, si intendono anche di rilevanza penale. Anche solo per tale evidenza, si deve ritenere integrata la condizione di tipicità del fatto e gli obblighi di vigilanza del genitore verso il figlio che ha predisposto l’intercettazione, non comporta ipso iure una sorta di assorbimento del soggetto (figlio) nella figura di altro soggetto (genitore intercettante). In altre parole il figlio mantiene la sua autonoma titolarità di diritti e non si fonde con la figura del genitore.

Nella stessa sentenza si rileva che il genitore intercettante, a sua difesa, lamentava l’esimente di cui all’art. 51 del Codice Penale che prevede al primo comma “l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità.” Il genitore denunciava quindi tale esimente in relazione alla potestà genitoriale di controllo verso il figlio minore.

Anche in questo caso la Cassazione ha affermato che non opera tale esimente in quanto “va innanzi tutto rammentato il principio per cui, ai fini dell’applicazione della causa di giustificazione di cui all’art. 51 del Codice Penale, è necessario che l’attività posta in essere costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti alla situazione soggettiva che viene in considerazione, nel senso che il fatto penalmente rilevante sotto il profilo formale, sia stato effettivamente determinato dal legittimo esercizio di un diritto o dal legittimo adempimento di un dovere da parte dell’agente (Sentenza nr. 14540/11 del 2 dicembre 2010).

In altri termini, la scriminante sussiste solo se il fatto, penalmente illecito, sia stato effettivamente determinato dalla necessità di esercitare il diritto o di adempiere il dovere. L’art. 51 del Codice Penale, non può insomma trovare applicazione in quei casi in cui detta necessità non ricorre, compreso quello in cui l’attività dell’agente abbia oltrepassato i limiti della situazione soggettiva che invoca a giustificazione della propria condotta”. Pertanto il genitore è stato condannato per il reato di cui all’art. 617 del Codice Penale.

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